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Benigni, l’inno di una patria gentile

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Io non vado pazza per Benigni. Colpa di una certa idiosincrasia nei confronti della comicità vernacolare. E soprattutto, lo ammetto, di quella toscana, i Pieraccioni e quell’altro tremendo che rimuovo e che serpeggia nelle nostre vite tramite spot telefonici. Mi piace per dieci minuti poi mi sovrasta e desidero pacato e algido silenzio bergmaniano. Anche ieri sera l’ho trovato arguto e acuto, logorroico e torrenziale. Ma quando ha cantato si invece che mi è piaciuto, oh se mi è piaciuto. Mi è piaciuta e mi ha emozionata quella cantilena domestica e buona. Come amor dammi quel fazzolettino, come certe ninnananne. Non so se è successo anche a voi di farci caso. Nei vecchi film neo realisti e nei nostri vecchi archivi della memoria, più neorealisti ancora, camminando per strada si sentivano voci venire dall’interno delle case o dalle impalcature o dai garage o dalle botteghe. Voci di donne, di bambini, di uomini che intonavano, più o meno armoniosi, canzoni come quella che abbiamo sentito ieri sera. Ritornelli mansueti di quelli che cantavano le lavandaie intente a sciacquare panni nei fiumi, giovani contadini che raccoglievano la frutta, imbianchini con cappello di giornale in testa. Voci che si intrecciavano in quel bel posto, che è stato definito dagli storici una nazione mite.
Ieri sera con lungimirante sapienza un comico ci ha ricordato quella nazione mite, messa insieme da ventenni pieni di cuore, un bel po’ retorici che prima di andare a morire volevano un loro inno che li rappresentasse e testimoniasse del loro impeto e della loro poesia del futuro. Ma che avevano in mente, basta pensare a Pisacane, una nazione unita e liberata dalla inuguaglianza prima ancora che dagli invasori, “perché è l’iniquità che mina un paese, la principale cagione, la sorgente inesauribile di tutti i mali della società, voragine spalancata che ne inghiottisce ogni virtù”.
Erano eroi gentili quelli, con Garibaldi che porta fiori quando va in visita a Mazzini, Settembrini o Santarosa che scrivono lettere piene di dolcezza familiare, Mameli che viene ricordato come un intrepido fanciullo. Una nobiltà indulgente e comprensiva come quella delle buone famiglie oneste. Che illumina il loro sogno di polis, se si ricorda che Manin nella sua repubblica di Venezia si preoccupa di legiferare sulla qualità e le dimensioni del pane e lui, ometto timido e balbuziente, accende animi e coscienze parlando della bellezza degli affetti e delle passioni che animano la rivoluzione.
Ecco quella canzone mormorata ieri sera magari ci ricorda proprio quella intelligente dolcezza partecipe e solidale, quella uguaglianza che non vuol dire eliminazione di individualità o differenze ma le concilia in una trama armoniosa su cui costruire un società meno lacerante, coniugando mitezza e fermezza, associare per dare fondamento alla politica, alla democrazia, al ragionare insieme.

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