L’utopia travolta del socialismo ha ridotto in macerie anche l’utopia aggiuntiva che le donne si sarebbero affrancate per processo “naturale” all’interno della rivoluzione e dell’abolizione del sistema capitalistico di produzione.
Non potevamo aspettarci molto di più dalla democrazia si vede. Pur con buoni risultati: nei paesi Ocse nelle università le donne superano gli uomini non solo numericamente ma anche nei risultati accademici. Ma sarebbe imprudente sostenere che le democrazie occidentali siano più sensibili al problema della parità di genere, nel lavoro, nella giurisprudenza, e in politica.
Le donne continuano ad essere penalizzate sul mercato del lavoro e a parità di prestazione non ricevono retribuzioni uguali agli uomini e sono ostacolate del conseguimento delle più alte dalle gerarchie dirigenziali. Nella gran parte delle democrazie la rappresentanza femminile nelle istituzioni resta scarsa, a conferma che il diritto di voto non è poi lo strumento onnipotente che Mill auspicava. I voti delle donne non si traducono in una presenza femminile in politica e la capacità professionale delle donne non riesce a varcare la soglia dei ranghi più alti della pubblica amministrazione. La permanente asimmetria – disuguaglianza, discriminazione – tra i generi si spiega con l’ovvia constatazione che i sistemi politici delle democrazie moderne sono organizzazioni maschili che riflettono e interpretano principalmente valori, culture e tradizioni maschili. Ben poco malgrado un allargamento apparente della sfera partecipativa si tratta di territori esclusivi piuttosto che inclusivi che affondano le radici in domini, tradizioni e prassi costruite da soli uomini, nei quali le donne rappresentano eccezioni, in Italia particolarmente eccezionali anche per le recenti regole di affiliazione. E con l’altra ovvia constatazione che si colloca esternamente alla sfera squisitamente politica e che riporta all’erosione di certi vincoli di coesione civile e di solidarietà proprio di antiche organizzazioni sociali che non sono stati sostituiti da un sistema adeguato di connessione tra famiglie, società civile e stato. Le donne che pure mostrano tanto talento nel negoziare le esigenze della quotidianità, incontrano formidabili ostacoli nel trovare spazi, energia e libertà emotiva per dedicarsi alla sfera pubblica.
Ma se è esigua la rappresentanza ancora di più sembra esserlo nel nostri Paese la “presenza” e la forza per quanto riguarda il lavoro: le donne si diplomano e si laureano più (e meglio) degli uomini, ma neppure una su due ha un posto retribuito. Una percentuale che ci pone ai piedi della classifica europea, solo sopra a Malta. E, a parità di livello, guadagnano il 16,8% meno dei colleghi maschi. Una donna su quattro lascia il lavoro dopo la maternità: su 100 bambini solo 10 trovano posto in un asilo nido, meno di 5 su 100 in uno comunale Nelle società quotate la presenza femminile nei Consigli di amministrazione arriva al 6,8%; le amministratrici delegate sono appena il 3,8%.
Sono considerazioni ovvie. Come è ovvio pensare che si tratta di aspetti di un generale deficit di democrazia esattamente come lo sono le lesioni ai diritti e alla dignità di altri soggetti marginali se non esclusi dalle opportunità. La cui sfera di allarga in presenza di quella che ormai è la crisi più dirompente della nostra contemporaneità. E che ha connotati ancora più allarmanti in un paese nel quale anche leggi e misure economiche oltre che comportamenti e modelli sociali condannano ad essere minoranza anche segmenti di popolazione numericamente superiori, oltre che soggetti nuovi in cerca di cittadinanza e speranza di futuro.
Tutto questo dibattito alimentato intorno alla dignità di genere offesa dalla mercificazione del corpo femminile mi sembra legittimo, ma tremendamente e, spero ingenuamente, parziale. Per essere ancora più ovvia, mi pare trascuri l’aspetto della mercificazione degli intelletti, delle intelligenze, delle opinioni. Sottovaluta la necessaria aspirazione alla tutela che in democrazia si dovrebbe avere rispetto alla mercificazione di valori fondamentali, quali appunto quelli del lavoro compromessi in Italia insieme a diritti conquistati con anni di lotte improvvisamente rimosse o irrise. Trascura l’uguale diritto al rispetto di altri corpi di uomini e donne, contabilizzati e valutati commercialmente solo in funzione dell’efficienza in fabbrica, al desk, nella noncuranza delle loro qualità di vita. E altri corpi ancora rimossi dall’immaginario perché imperfetto e dei quali si vuole decidere la modalità di vita e di morte, nell’indifferenza per il rispetto della volontà.
Come donna molto privilegiata perché cresciuta in anni di consapevolezza di responsabilità non sento offesa la mia dignità dal premier e dalle sue abitudini sessuali. Non la sento scalfita nemmeno dai modelli che propone dalle sue televisioni a madri e figlie molto voraci, molto avide e molto ambiziose: credo nella libertà di scelta in anni e geografie nei quali c’è un accesso formidabile ed equo a informazioni e disegnarsi aspettative di vita le più varie e meno effimere. Non ho indulgenza né comprensione si tratti o no di bocconiane più o meno vulnerabili.
La mia dignità di cittadina e di democratica invece è offesa, offesissima e pensa che andare in piazza è giusto e onorevole se la vera finalità è contribuire a compiere quello che non ha saputo fare l’opposizione parlamentare, abbattere un governo che insieme alle regole e alle leggi, insieme alla credibilità delle istituzioni e all’amore per questo paese e all’appartenenza alla polis, offende diritti, cittadinanza e futuro.