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Bambini senza domani

Anna Lombroso per il Simplicissimus.

Ieri sera quattro bambini, di età compresa tra 4 e 11 anni, sono morti carbonizzati nel sonno in una baracca di un accampamento rom alle porte della capitale, contiguo, paradossalmente ed esemplarmente dell’iniquità, al prestigioso circolo dell’Acquasanta. Sui giornali di oggi c’è la foto della madre, la bocca atteggiata in un atroce urlo come nella pietà di Niccolò dell’Arca. E c’è la dichiarazione di Alemanno: ‘Burocrazia maledetta, chiederò al governo poteri speciali’ L’Italia è così, risponde ai problemi “normali” e prevedibili di un tempo e di un mondo globale, con leggi speciali, poteri speciali e una specialissima intolleranza, condannando gli uomini che non vogliono essere speciali, ma solo umani, al rimorso e alla pena. In un’epoca che oscilla tra cosmopolitismo e tribalismo, che dondola tra una cultura della convergenza e dell’omologazione e una richiesta variegata di appartenenza e di riconoscimento più o meno diffuso delle differenze, si esercita da noi una confusa combinazione di misericordia e rifiuto, di diffidenza e carità. Eh si abbiamo imparato bene la cultura di governo: il personalismo, l’egoismo, il sospetto per chi è diverso o non ubbidisce, l’esclusione di chi crea problemi. A casa nostra ( nella nostra città, nel nostro quartiere, nella nostra regione) vogliamo “comandare noi”, una espressione incongrua per il nostro tempo e il nostro mondo e che sottintende un titolo di proprietà immorale. Come a dire che ci sono persone che pur vivendo accanto a noi, sono come in casa altrui nella diaspora contemporanea, senza diritti ma solo con concessioni revocabili secondo convenienza. Gli immigrati ci pongono dei problemi? E noi li fronteggiamo con quote d’ingresso modulate secondo le nostre esigenze sociali ed economiche e per quanti ne “eccedono” ne facciamo dei clandestini, trattandoli da trasgressori e condannandoli all’ineluttabile delinquenza. Evitando di pensare che anche noi gli “aventi diritto” abbiamo la responsabilità delle persone che muoiono in mare, che nascondiamo nelle stive, che assiepiamo in accampamenti abusivi, indotte ad agire dalla nostra legislazione da marginali irregolari. La criminalità si annida è vero nelle comunità che vivono ai margini della nostra “civiltà”, oggi i rome i sinti, domani chissà, e allora spianiamo i campi dove vivono grazie alle nostre misure emergenziali e pigiamo i loro pollici piccoli o grandi che siano perché lascino un’impronta. L’importante è non guardare la loro sofferenza e la loro dignità. I mendicanti seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio e nuocciono ai commerci. Basta non pensare alla vergogna che si aggiunge al bisogno. L’indigenza si diffonde. È sufficiente istituire l’elemosina di stato. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando per garantire i nostri non guardiamo l’altro lato del “benesser”. In uno stato di diritto il lato è uno solo: il mio è anche il tuo, ma in una società di disuguali l’uniteralità è la premessa dell’ingiustizia e della discriminazione. È che questa è diventata un’epoca di restrizioni, soprattutto nei territori dell’umanità e della socievolezza. Ci dicono che il nostro benessere è insidiato dagli altri e ci spingono a rifugiarci una cerchia sempre più ridotte e discrezionale di affini e nella condivisione non di valori e principi e sentimenti, bensì di interessi. Così pensiamo di trovare la nostra sicurezza nella rimozione delle insidie e delle differenze inquietanti. E la parola umanità suona vuota, le unità politiche e civili create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole egoistiche comunità sospettose le une delle altre. Le riduzioni sempre più vorticose e potenti della scala della socievolezza investono ormai ogni ambito della vita di relazione consolidano antiche nuove ostilità e creano nuove inimicizie in una spirale che distrugge con l’interesse generale i suoi postulati di legalità e imparzialità, sostituite dalla ricerca di immunità, impunità, difesa con ogni mezzo dei privilegi e delle prebende. Ma da questa diffidenza, da questa chiusura nell’egoismo deriva una perdita di futuro, mentre procediamo alla cieca nel terrorizzato consumo di un presente che ci piace sempre meno. La connessione delle ineguaglianze in risorse e doti iniziali tra gli angoli del mondo molto troppi ricchi e le più vaste geografie della povertà, delle quali rappresentiamo, qui e ora, un significativo campione, si intreccia con il problema aperto della responsabilità verso le generazioni future. La disuguaglianza che diventa sempre più profonda implica che la crescita predatoria e la sopraffazione ci fanno già trattare da esclusi, da condannati e da sudditi se non da schiavi reali e potenziali, i nostri figli. E bruciano la loro aspettative, proprio come quei quattro bambini.

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