Ma l’esultanza marchionnesca è fasulla, la realtà sta cambiando: lentamente si va facendo più chiaro il concetto fondamentale che meno si lotta, meno posti di lavoro ci saranno: chi si arrende è trascurabile, non ha bisogno di investimenti, tende ad accontentarsi.
E infatti in due anni abbiamo una escalation di consapevolezza. L’annuncio della chiusura di Termini Imerese fu accettato quasi senza fiatare, come una specie di decreto del destino. A Pomigliano i no furono il 36 per cento e a Mirafiori sono arrivati al 45%, anzi avrebbero vinto se non fosse stato per gli impiegati, rappresentanti della cecità sociale e della salvezza individuale. Ma di molto loro Marchionne saprà presto fare a meno.
La Fiom con la sua battaglia solitaria ha raccolto molti più consensi di quanti ne abbia in fabbrica e questo ci dice che cresce la consapevolezza di una macelleria sociale che ha il solo scopo di favorire le operazioni finanziarie. Che cedere ai ricatti, mollare sui diritti non è la strada maestra per conservare il posto di lavoro, anzi più cresce lo sfruttamento, meno ce ne saranno.
Un filo di speranza c’è. Purché sia chiara una cosa: che questi nuovi fermenti non troveranno, almeno per ora, una sponda politica: la politica non esiste più perché il popolo si era dissolto, spezzato nell’atonia dei destini individuali, privato degli orizzonti. Per questo attorno alla Fiat abbiamo assistito alla complicità o alla futile retorica. A un’assenza evidente e disperante.
Paradossalmente proprio i ricatti stanno cominciando a riformarlo quel popolo. E sarà quello semmai a ricreare la politica.