Anna Lombroso per il Simplicissimus

Li conservo in un vecchio sacchettino di velluto. Sono un fazzoletto triangolare da mettere al collo e un distintivo. Ti tengo insieme al brevetto Alexander a ai documenti falsi, di volta in volta intestati a Cesare Landi, Cesare Rossi, Cesare non ricordo più chi. Sono le piccole domestiche eroiche memorie di mio papà comandante partigiano. E a volte mi capita di accarezzarle con dita leggere perché ho quasi paura che si disfino.
Il fazzolettino di seta da paracadute e il distintivo del Cln sono tricolori. E nelle foto di papà alla liberazione di Treviso, di Milano, di Venezia, insieme a Lombardi, a Pertini e ad altri medaglioni di questa stanca Repubblica, si vedono sventolare decine di bandiere tricolori, alcune lacere, altre belle trionfanti.
Una patria già stanca anche se recente rispetto ad altre, incompiuta e già ridiscussa e poco riconosciuta, la nostra. E poco amata. L’abbiamo ereditata e immediatamente subita in aride lezioni sul risorgimento sbrigate affannosamente a fine anno scolastico, dissacrata come un attrezzo retorico ed enfatico da riporre con vecchi orpelli, ideologie, principi, utopie nella soffitta della cinica contemporaneità
Non esiste da noi cultura e tradizione patria come in Francia. Della quale parla con impeto lirico Simone Weil prima del conflitto: i francesi sanno che una parte della loro anima è talmente legata alla Francia che se la ella le viene tolta quella parte le rimane aderente come la pelle a un oggetto bruciato, fino a lacerarsi. E nel 1940 rivedendo i contorni compromessi da Vichy della grandeur, con accorata e lucida consapevolezza, invita i suoi compatrioti ad essere pietosi e compassionevoli nei confronti del loro paese come si farebbe con un bambino o un vecchio genitore o una donna amata.
In quegli anni in Italia pronuncia parole alte sagge e lungimiranti, Carlo Rosselli, per il quale l’aspirazione all’internazionalismo e all’europeismo è condizionata al riconoscimento dell’identità di popolo e di patria, come fondamento e base della futura Europa democratica. Parole che verranno dimenticate nei successivi dibattiti sull’identità nazionale,
E’ scontato dire che un Paese che non aveva la potenza delle Cancellerie avrebbe subito l’Europa più che contribuire a costruirla. E soprattutto un Paese definito “mite”, e non è detto che sia un difetto, ma anche caratterizzato da quella che è stata definita la libertà negativa che si esprime nel rifuggire da regole e norme, dall’ordine a dalla precisione per non dire dalla legge.
In una realtà così anche il patriottismo, dopo il tentativo nazionalistico, si presenta impalpabile, un sentimento semi inconsapevole fatto di amore per certi luoghi, ma irrispettoso della loro qualità, per certe memorie ma incline al pubblico oblio, per certi paesaggi, spesso cementificati, per certi cibi e bevande aggrediti dissipatamente dai macdonald. Tutti elementi che rendono la patria un bene non del tutto identificabile fragile dirottabile su altri propositi non tutti legittimi.
Ma che esiste. Qualcuno si chiede se vada difesa a cominciare da Giulio Bollati in quello che è diventato un classico, L’Italiano, nel quale si chiede se esista un modo italiano di essere moderni, una via italiana alla modernità. Certo se la modernità italiana è quella “regressiva” autoritaria e “monetarista” tanto enunciata oggi non è peregrino l’ interrogativo provocatorio di Paul Ginsborg “ma vale la pena di salvarla l’Italia?”
È lo stesso interrogativo che verrebbe da porsi per la democrazia. È incompiuta, è fragile, vale la pena di salvarla? In tutti e due i casi sappiamo bene quali sono gli attentati a queste due vulnerabili edificazioni.

Perdita di senso civico, trascuratezza e irrisione dell’interesse generale, disaffezione, personalismo. Sono due la pratiche impiegate da un classe dirigente cinica e indifferente al bene pubblico per prosciugare le democrazie e erodere l’identità e l’unità nazionale. Chiuderne le condotte e spegnerne il desiderio. Sostituendo a visioni del futuro e responsabilità condivise l’aberrante perseguimento di ambizioni e interessi privati e l’inalzamento dei livelli di tolleranza dell’illegalità. Ma soprattutto corrompendo le coscienze creando un clima confuso e instaurando un relativismo nichilista in cui la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, i piccoli privilegi parificati all’interesse di tutti e l’abuso e l’arbitrio trasformati in abituale esercizio di governo.

Abbiamo una patria minacciata, una chiesa troppo forte in uno stato troppo debole, un tessuto produttivo e sociale innervato da clientelismo e malaffare, una sinistra debole e una destra xenofoba e razzista forte, una inclinazione inquietante al ripresentarsi di fenomeni autoritari, pulsioni localistiche improntate a campanilismi irrazionali, al conservatorismo e al misoneismo, oltre che alla conservazione di privilegi iniqui.
Ma “la gloria non vedo” recita Leopardi. Ciononostante magari pensando a quel fazzoletto a quel distintivo, ai Comuni e alle repubbliche, a Manin, a Cattaneo, a Spinelli e a Ernesto Rossi, alle loro utopie a alle nostre convinzioni deboli e disilluse, “sento” che vale la pena di salvarla questa Italia. Guardando a un passato di elementi fragili ma costanti che possono essere la cura del futuro: l’autogoverno urbano, l’europeismo, le aspirazioni egualitarie,un genio disordinato e creativo, quella criticata mitezza, per farne un luogo ove si ragiona insieme. Per “praticare” tutti quei fondamenti dotati di una carica utopica necessaria a creare un posto che vale la pena di raccontare e di abitare, dove modernità significhi equità, libertà, dignità, lavoro, sapere, bellezza. Beni minacciati e logori come quella bandiera arrotolata nelle nostre mani timide e indifferenti, che forse dobbiamo svolgere e inalzare perché non piace a quelli cui non piacciono la democrazia, la libertà, l’autonomia delle persone, la conoscenza e la libera informazione, il rispetto dei diritti.