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Disastro da Tiffany

Anna Lombroso per il Simplicisimus

C’è una corrente estetica sempre molto dinamica, la disastrologia. Eleganti e schizzinosi contemplatori di macerie (negli Usa  li chiamano felicemente doom-writers) oggi possono approfittare dell’occasione di esercitarsi in editoriali e commenti che alzano sonoramente la polvere  dei rottami di “un paese sconfitto”.

Non mi piacciono i black blok: quelli difficilmente catalogabili che bruciano i totem capitalistici e espropriano di credibilità i ragazzi dei tetti, quelli in doppiopetto della compravendita “parlamentare” e nemmeno quei testimoni privilegiati che davanti al Pc fanno gli entomologi della contemporaneità  infilando spilloni sugli ultimi battiti d’ali di speranze e aspettative.

Se una disfatta c’è stata ieri e non è detto che sia una disgrazia è quella della cattiva politica per mano della cattiva politica. Il premier ha vinto una battaglia personale in linea con la sua attività di governo, che consiste per l’appunto nell’esercizio di un potere personale finalizzato a consolidare ed alimentare interessi personali. Ha vinto per una manciata di voti, pagati cifre miserabili in miserabili saldi secondo una procedura che si colloca perfettamente nella “cultura di governo” e nel sistema di potere secondo il premier. Sono i voti che contano, i voti che sostituiscono le ragioni, secondo i capisaldi  del  suo aberrante “contratto sociale” basato sull’esercizio dell’illegalità, sulla corruzione, sul personalismi, sull’indifferenza per i diritti di tutti e l’attenzione ai privilegi dei pochi, sul disprezzo per il rispetto delle procedure, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per l’indipendenza della funzione giudiziaria, per tutto ciò che qualifica una democrazia.

E anche in questo caso i suoi agenti commerciali nel palazzo ne hanno rispettato i principi ispiratori, che si materializzano in pastette, relazioni opache, accordi sottobanco, pratiche di strapotere disinvolte e irrispettose di leggi codici e regole condivise democraticamente. E che si sostituiscono alla legittimità, alla legalità, alla fiducia, alla dialettica tra persone e rappresentanze, alla politica.

La storia è una conchiglia a spirale che ci richiama ad esercitare vigilanza, secondo cicli ricorrenti, per la tutela della nostra democrazia incompiuta. Oggi quella conchiglia arrotolata su se stessa ci mette in guardia ricordando che nemmeno il geloso possesso dei voti può forzare le regole del gioco democratico, che la maggioranza non basta per avere politicamente ragione.

E in effetti non c’è consenso numerico che possa giustificare la violazione delle forme, delle regole, dei limiti stabiliti dalla Costituzione a tutela della democrazia e dell’uguaglianza dei cittadini.

Quello che il premier vuole è difendere, grazie  alla sua, peraltro esigua, superiorità aritmetica il suo potere monopolistico fondato sulla tolleranza dell’illegalità, sulla corruzione dentro e fuori il Parlamento, il personalismo, l’indifferenza per i diritti di tutti e l’attenzione ai privilegi dei pochi, il disprezzo per il rispetto delle procedure, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per l’indipendenza della funzione giudiziaria, per tutto ciò che qualifica una democrazia.

Ieri fuori dalle aule dove si consumava un delitto contro la democrazia e una violenza sul nostro futuro, non c’erano solo altri violenti e altri provocatori a mutuare le offese al diritto dei black blok in blazer.

C’erano ragazzi, operai, precari che sanno che quei voti quella maggioranza fanno parte di una partita che da tempo li ha esclusi.  E che si  gioca trasversalmente in tutti i teatri della cattiva politica, grazie a organizzazioni malate di cupio dissolvi che dicono di volere una riforma elettorale, ma restano attaccate ad un sistema che premia cooptazioni e affiliazioni e penalizza partecipazione e rappresentatività.

E quel Lego tirato su da mani frettolose e  impreparate sta crollando. Ma dietro a quelle facce  spaurite dei ragazzi che ieri erano in piazza c’è una forza che rappresenta e interpreta quello che non c’è  oggi nel  pensiero di governo della destra e nell’inadeguatezza della sinistra, il  futuro. Non c’è perché se da una parte alligna l’alimentazione della rapidità come in un gioco di prestigiatore fatto per scavalcare tempi e procedure, e dell’emergenza, utile a rendere legittimo e accettabile qualsiasi aggiramento delle regole e delle competenze, dall’altra invece abita l’incapacità accertata di disegnare un progetto che vada oltre il sia pur necessario anti-berlusconismo.

Voglio pensare che quei ragazzi  abbiano la forza travolgente afferrino quelle pietre per costruire il domani  contro ogni lugubre diagnosi dell’oggi. Perché è dell’uomo guardare avanti parlare di futuro anche quando davanti di futuro ne ha ben poco. È la terapia contro la disperazione. E la politica come esercizio umano irrinunciabile non prevede disperazione ed ha fame di futuro.

È sempre stato così: anche se la vita degli uomini passa senza frutto, si deve pensare in grande, proiettarsi in avanti, con quel benedetto maledetto ottimismo della volontà che nessun pessimismo dell’intelletto deve corrodere.

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