Siamo davvero messi male. Lo sappiamo e questo aumenta il senso di inferiorità del Paese. Siamo ormai abituati a una deprivazione di realtà e quindi siamo portati a dare valore di certezza a qualsiasi cosa venga da fuori, come fosse un’ancora di salvezza.
Per questo stavolta voglio spezzare una lancia a favore dell’ Italia e in particolare dell’Università italiana contro l’informazione un po’ faziosa che viene dal mondo anglosassone. L’ allarme è lanciato: l’ultima classifica del “Times higher education”, una rivista che viene pubblicata dal celebre quotidiano londinese, non comprende nessun ateneo italiano fra i 200 migliori al mondo.
Certo l’università italiana è afflitta da grandi e insoluti problemi che del resto non potrebbero essere risolti nell’ambito dell’attuale mediocrità cialtrona, ma siamo davvero così scarsi?
Proprio per niente. Che ci sia qualcosa che non va lo dimostra il fatto che le prime sei università sono le “grandi” americane più Oxford e Cambridge che, guarda caso, finiscono parimerito. Non è singolare che uno studio anglosassone arrivi alla conclusione che le loro sono le università migliori?
No, è invece assolutamente normale l’inconscia tentazione di formulare criteri validi per la propria realtà, ma del tutto inadeguati ad affrontare contesti diversi. Del resto è un circolo vizioso perché la maggioranza dei “votanti” proviene da quel’ambiente o magari – come spesso accade nei paesi in via di sviluppo – è influenzato dal nome. Ma anche facendo questa tara la cosa non funziona. Infatti basta leggere con un minimo di attenzione i parametri con cui la classifica viene fatta per rendersi conto che nessuna grande università italiana ha la minima possibilità di ottenere una classifica decente. E non per la sua qualità.
Il 30 per cento del punteggio deriva da considerazioni sulla didattica con parametri che vanno dalla retribuzione dei docenti alla relazione studenti/professori. E’ ovvio che università private e costose come quelle in testa alla classifica abbiano un rapporto ottimale. Così come l’hanno gli atenei asiatici nei quali l’accesso è molto selettivo. Da noi si sa è diverso, l’università è spesso un sogno, un parcheggio, un’aspirazione ed è in gran parte libera: il rapporto andrebbe fatto tra il numero dei docenti e il numero degli studenti che frequentano piuttosto che sugli iscritti. O addirittura sul rapporto docenti/laureati. Senza parlare poi degli stipendi dei professori che già di per sé costituisce un bell’ handicap di classifica.
Un altro 30 per cento riguarda il numero di citazioni che le ricerche o i semplici eventi degli atenei, raccolgono. Ma come lo stesso Times higher education fa notare, questo parametro è molto controverso perché non misura la qualità delle citazioni, ma solo la quantità. Ed ovvio che un mondo accademico dotato di moltissime risorse per miriadi di pubblicazioni di non eccelsa qualità, destinate a ricerche di identico livello (l’universo accademico americano, ha anche un rovescio della medaglia) compresa l’economia domestica, finiscano per fare la parte del leone in queste considerazioni quantitative.
Il 32, 5 per cento del punteggio riguarda la ricerca vera e propria. Anche qui però più della metà dei voti riguardano i soldi investiti per le ricerche in relazione al numero dei ricercatori. Un criterio che varia da Paese a Paese e dipende molto da situazioni particolari di finanziamento, di bilancio, di campo scientifico o umanistico. Gli stessi “classificatori” lo riconoscono: “This is a controversial measure, as it can be influenced by national policy and economic circumstances”.
Insomma la classifica appare alla fine assai meno perentoria di come viene invece accolta, una sorta di indicazione di massima che andrebbe vista, per ciò che è, come una base di discussione e non come un sacro testo. Un’occasione per discutere seriamente della nostra università, non qualcosa per esercitare la nostra volatile emotività. Il fatto che invece ci si stracci le vesti prima di capire di cosa si tratta ci dice una cosa precisa: che dobbiamo imparare a leggere dopo vent’anni di televisione.
L’università del nostro scontento

La svalutazione delle università italiane rientra nella non considerazione e nel giudizio negativo in vari settori, dall’economia alla cultura, dallo sport alla politica italiani che evidenziano la mancanza di potere e di autorevolezza dell’Italia relegata perenemente a una realtà di sudditanza bollata dal pluridecennale giudizio di tipologia scolastica
” ha le capacità ma non s’impegna”, ” potrebbe fare di più ma si distrae”.
Le classifiche, si sa, vanno sempre decodificate, bisogna sempre vedere quali voci e relative a quali contesti vengono prese in considerazione.
Questo succede anche riguardo al sistema d’istruzione italiano nel suo insieme in ambito di comparazione europeo. Questo succede anche per le prove dell’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione), prove moderne che garantiscono serietà per valutare le competenze acquisite dagli studenti italiani in rapporto al quadro europeo. Molti docenti si proclamano obiettori di coscienza riguardo alla somministrazione delle suddette prove ai propri studenti perchè, come tutte le prove e i criteri che pretendono di standardizzare i risultati, non tengono conto delle situazioni reali e dei contesti diversificati di partenza.
Figurati Lucia, capita a tutti. Qualche volta per distrazione compaio anche io come anonimo su questo blog.
Concordo. Sicuramente i parametri di giudizio sulla bontà delle nostre Università Italiane sono spesso sfavorevoli a queste ultime e prova ne è l’esodo dei nostri laureati che sono accolti sempre a braccia aperte dagli atenei stranieri. Bisogna poi considerare l’atteggiamento dei partiti di destra che hanno visto sempre la cultura come un apparato gestito dalle sinistre e, come tale, da distruggere. Come distruggere ? Togliendo i fondi, ovviamente.
Mi scuso per la mancata compilazione del campo precedente, sono io l’anonimo del commento del 9 novembre 2010, 3:46 pm
Condivido appieno l’articolo e aggiungo che di tutta la situazione ne scaturisce la nota dolente dell’emigrazione di massa sia dei nostri ricercatori che dei nostri migliori docenti, causa disservizio della nostra amministrazione governativa.