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“Non volevo”: il paese preterintenzionale

Non voleva lo zio maiale, non voleva Callisto Tanzi, non voleva Scajola, non voleva Bossi, non voleva il teppistello della metro di Roma. E’ la frase che sentiamo più spesso dopo fatti di sangue, battute politiche o scandali. Nessuno voleva, viviamo in un Paese preterintezionale.

Dovremmo scriverla sulle Tshirt, sui libri, persino sulla bandiera, questa frase che testimonia dell’irrealtà da cartone animato in cui  viviamo e dall’altra la concretezza perversa del “particulare” che ci assorbe.

Del resto nella dispersione e nella confusione è chiaro che nessuno vuole fare ciò che  fa. Ho tirato un cazzotto dei denti a una ragazza, ma mai immaginavo che andasse all’ospedale, ho fatto qualche taglio alla scuola, ma non volevo distruggerla. Ecco l’ottimismo ebete della non volontà.

Non è nemmeno più quell’ipocrisia che si taglia a fette come il salame a grana grossa: è la perdita del senso di responsabilità, della coerenza e della lucidità. E’ il groppo in gola della paura, di orizzonti accartocciati su se stessi. Non c’è che fare: la perdita del senso di colpa è anche la perdita del senso della giustizia, come quotidianamente  possiamo notare.

Un giorno sapremo che nemmeno Berlusconi voleva, che non voleva la sua corte dei miracoli, che non voleva Bonanni, che non voleva Marchionne, che non volevano le persone che accettano supinamente il non volere altrui. Se Dostoevskij fosse nato quaggiù, non avremmo di certo i fratelli Karamazov, al massimo i fratelli De Rege.

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