Quello che sorprende nella vicenda del call center trasformato in una specie di lager non è  il fatto che in esso s’intravvedono pulsioni fin troppo presenti nella nobile imprenditoria italiana. E’ invece che gli internati, alias lavoratori, hanno sopportato tutto questo, si sono fatti aggrovigliare nella rete di illusioni, ricatti, parole d’ordine, vessazioni, senza alcuna reazione collettiva. Molti andavano via appena potevano. Qualcuno, una volta uscito dall’inferno, denunciava.

Tutte strade individuali nelle quali non s’intravvede nulla che abbia lontanamente a che fare con un’etica collettiva del lavoro, con una concezione degli interessi comuni, non dico neanche con la sindacalizzazione, ma quanto meno con una sorta di leggittima difesa dall’eccessivo sfruttamento.

Al fondo di questa vicenda sospetto che si possa scoprire una desolante verità: una coincidenza tra la mentalità dei negrieri e quella delle vittime. E’ evidente che i reclutati riuscivano a sopportare le angherie fisiche e contrattuali, i ridicoli riti motivazionali, potevano abbassarsi persino a sfruttare le famiglie per sopravvivere in quella giungla, solo avendo introiettato un modello distorto dell’idea di lavoro.

Ora non è importante che questo sia un caso limite: in migliaia di altre situazioni la dignità, la correttezza e il futuro vengono prese a frustrate, senza che si noti la reazione che meriterebbero, accolte con una sorta di abulia nella quale lo scontro di interessi che è vitale per le società moderne e per le democrazie, non compare nemmeno come possibile ed eventuale. L’unica via di uscita concepita è quella individuale

Il mondo è fatto così, non ci si può fare niente. E io speriamo che me la cavo. Questa sembra essere l’asse ideologico attorno al quale gravita la nube gassificata di due generazioni di italiani. Senza nemmeno un call center a cui rivolgersi per chiedere chiarimenti.