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L’amore ai tempi di Silvio

L’assalto di Milano a colpi di duomo è stato vero o una messinscena? Non saprei dirlo, tutto è possibile nell’Italia degli avvocati che si corrompono da soli, dei fermati che si massacrano da soli e dei testimoni che spariscono. Ma in fondo la domanda è persino inutile: tutta la vicenda è stata gestita dal premier “come se” fosse parte di un canovaccio utile al suo disegno. Tra sfruttare cinicamente un’occasione capitata per caso e magari enfatizzata col trucco o crearla a bella posta non c’è poi una grande differenza: in questo caso è talmente bugiardo e ipocrita il fine che la questione dei mezzi è secondaria.
Mancava un tassello per testimoniare  un fallimento politico e al tempo stesso un passo avanti sulla strada del peronismo. Berlusconi non ha resistito ad inserirlo dopo la duomata in faccia: quello ridicolo, patetico, inquietante dell’amore. Esaurita la fase in cui il salvataggio del premier poteva essere spacciato per politica, ora si fa ricorso ai  sentimenti: il premier va sottratto ai giudici in virtù di un clima d’amore che dovrebbe contrastare quello dell’odio. Lo stesso clima che dovrebbe sostituire prospettive e progetti con una strombazzata efficienza emergenziale o con simboli chimerici come il ponte e il ritorno al nucleare. Lo stesso che dovrebbe rendere inutili le istituzioni. Viene fuori la filigrana più autentica e penosa di un leader auoreferenziale che chiede maggior potere solo per i propri interessi e per il gruppo di potere lecito e illecito che rappresenta.
Il passaggio definitivo dalla politica alle emozioni, dal consenso all’amore è il bivio cruciale del berlusconismo, la cruna dell’ago attraverso cui far passare un progetto autoritario.
Non saprei dire se il disegno andrà a buon fine, se la rassegnazione indotta avrà la meglio sulle capacità di reazione di una parte della società. Ma certo è un passaggio obbligato per Silvio al quale ogni minimo spazio di libertà è come un faro acceso sulla realtà di un Paese ridotto a un fascio di paure e di egoismi, a un’opera cubista senza dinamismo, a una casa di bambola senza riscatto. E infine a uno di quei Paesi dove le mosche depositano i loro escrementi sulle carte appese ai muri. Un posto dove la verità è un sottoprodotto della menzogna.
I suoi famigli vogliono ridurre la rete come in Cina, pretendono di bollare come disfattismo anche la più evidente analisi economica, vogliono l’ottimismo obbligatorio, fanno promesse che non mantengono e mantengono promesse accuratamente nascoste. Prima la chiamavano libertà, adesso amore.

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