maxresdefaultCiò che sta succedendo in questi mesi o meglio ciò che comincia a vedersi con sempre maggiore chiarezza è l’inizio di una reazione forte contro il liberismo predatorio sovranazionale. Prima il Brexit, poi l’elezione di Trump sono per così dire l’immagine simbolo di qualcosa che però in modo meno clamoroso sta accadendo ovunque: il pendolo liberista ha già raggiunto l’apice e dopo trent’anni di dominio sta cominciando la caduta trascinato non dalla gravità, ma dalle contraddizioni insite nell’idea di uno sviluppo infinito, di disuguaglianza sociale come motore economico, di profitto incondizionato, di mercato come regolatore assoluto, il tutto tenuto insieme da un’antropologia arcaica e in aperta contraddizione con l’idea stessa di democrazia reale.

Le cose sono ovviamente molto complesse, richiederanno ancora molto tempo  e gli esiti sono del tutto imprevedibili, legati alla capacità delle persone di strapparsi di dosso i condizionamenti, di capire e di agire: possono essere di tipo autoritario e in questo senso si muoveranno le elite, soprattutto quelle locali, una volta che dovranno prendere atto del fallimento della globalizzazione, oppure verso democrazie sociali che non si limitino a meccanismi di simulazione rituale della rappresentanza. Come andranno le cose verrà determinato dalle scelte che verranno fatte via via, anche su cose e forze che apparentemente non sono legate a questa dinamica. Ma volevo fare con voi una riflessione su ciò che tutto questa ci insegna: da quando ho l’uso della ragion politica ho sempre sentito parlare di utopia comunista, un modo per non contestare l’ovvio concetto di uguaglianza, se non altro dei punti di partenza, ma allo stesso dire che sì, sarebbe bello, ma purtroppo è qualcosa di impossibile se si vuole conservare la libertà (intesa nel suo senso più ristretto e forse più futile), quindi meglio tenersi la minor disuguaglianza realizzabile nelle condizioni date. E’ un discorso semplicistico, ma restituisce bene le ipocrisie dagli anni 60 in poi. Con questo si intendeva che il sistema occidentale era invece sgravato per così dire dal peso del futuro e dell’evoluzione che non fosse puramente marginale poiché esso era una realtà che non aveva bisogno di pensare ad alcun cambiamento sostanziale, che appunto non aveva utopie. Quando poi sembrò che questo impianto avesse definitivamente vinto contro qualcosa che si diceva fosse comunismo, ma che al massimo e nel migliore dei casi era una tensione verso di esso, spesso persino punita e fraintesa, le elites del denaro e dell’influenza pensarono di essere libere da lacci e laccioli, di poter finalmente portare il sistema alle sue  estreme conseguenze.

La scomparsa del nemico portò a prevedere la fine della storia, ma nessuno comprese che invece proprio la perdita degli ostacoli verso un pieno dispiegamento delle dinamiche capitalistiche le avrebbe fatte inciampare nei loro limiti e nella loro aporie finali. Nessuno lo sospettava perché fino ad allora tutto aveva funzionato per due secoli, la crescita era stata costante e impetuosa, anche se in qualche modo imbrigliata dalle lotte sociali. Anzi proprio a queste ultime si deve gran parte dello stimolo a produrre nuove tecnologie di processo per aumentare il  bottino del plus valore, andando dall’utensile più performante alla robotica dei nostri giorni. Ma si trattava di un miraggio perché tutto questo era fondato sullo sfruttamento intensivo dell’intero continente nordamericano e, attraverso gli imperi coloniali de iure e de facto, della quasi totalità del pianeta. Basti pensare che alla vigilia della prima guerra mondiale la sola India aveva tanti abitanti quanto l’intero mondo occidentale, comprese le colonie bianche del Canada e dell’Australia. Questo disegna con chiarezza le dimensioni di una predazione che permetteva a certe logiche di avere abbastanza grasso sottopancia per comprare adesione e  pace sociale. Che poi rifluiva in profitto dal momento che ogni produzione di massa ha bisogno di masse.

Oggi la situazione è completamente diversa: le rapine fruttano meno, hanno bisogno di guerre continue e di eserciti mercenari, mentre vasti territori si sono in parte sottratti ad essa e molte risorse si sono fatte più rare. Per di più sono sorti antagonisti che prima non esistevano: il battello sta esaurendo la legna comprata in porto e per andare avanti deve bruciare le sue stesse strutture, colonizzare i suoi stessi abitanti. Così il liberismo, coronamento dell’avanzata capitalistica, si sta rivelando esso pure un’utopia.  Ma  un utopia assai diversa da quelle precedenti perché mentre quella comunista si è via via consolidata, dagli esordi dialettici, in un grenz begriff, in un lievito necessario al progresso, quello liberista si mostra invece come un disgraziato errore, un’illusione  alla luce degli stessi concetti che esso predica e si avvia a diventare una sorta di neo feudalesimo impazzito e incoerente. Alla fine non esiste una vera libertà individuale senza libertà sociale, neanche al livello più basso, quello della massa informe di desideranti e consumatori che paiono essere il frutto di un esperimento schopenhaueriano, la trasformazione dell’umanità nel barboncino Atma. Anzi la stessa sostituzione delle persone e del loro portato di relazioni, idee, senso e credenze con gli individui senza ancoraggi al di fuori di se stessi e delle loro pulsioni, è un fallimento e allo stesso tempo comincia ad apparire dissennato: le società non sono formate da individui che stipulano un qualunque contratto sociale, è la società stessa che crea gli individui e gli ambiti in cui essi agiscono.

Per trent’anni abbiamo dovuto sopportare attorucoli e produttrici di marmellate che predicavano l’inesistenza della società, ma attenzione, stranamente non quella del potere, seguiti da guitti, convertiti e opportunisti di ogni genere. Sta venendo l’ora di seppellire queste cianfrusaglie. Anzi di tirare la catena.